Ancora Andrew Curry sugli spazi pubblici.

Una crisi è un’occasione da non sprecare. E oggi ci troviamo di fronte a una crisi nella quale, inaspettatamente il tema dello “spazio pubblico” occupato dagli “occupy movements” si trova sotto i riflettori, insieme ai soliti temi degli abusi e dei privilegi della comunità finanziaria. Per non perdere questa occasione vi proponiamo la seconda parte della riflessione di Andrew Curry sullo spazio pubblico.

Nel mio precedente post ho parlato dei retroscena dell’ormai diffuso processo di privatizzazione degli spazi pubblici. Oggi passerò in rasssegna alcune delle risposte politiche a questo processo. L’idea di spazio pubblico è al cuore di qualsiasi idea di vita urbana, come dice Paul Kingsnorth nel suo saggio Real England:

è l’essenza della libertà pubblica: un luogo per incontrarsi, per protestare, per sedersi in contemplazione, per fumare, parlare o guardare le stelle. Non importa quel che succede nei negozi e nei caffè, negli uffici e nelle abitazioni, l’esistenza dello spazio pubblico significa che c’è sempre un posto dove andare per esprimere se stessi o semplicemente scappare… Dai parchi alle vie pedonali, dalle piazze ai mercati, gli spazi pubblici stanno venendo gradualmente acquistati da privati e chiusi.

Un paio d’anni fa Blueprint magazine, in collaborazione con i libertari del Manifesto Club, decisero di frequentare luoghi che pensavamo fossero facilmente identificabili come pubblici, come Trafalgar Square e l’area di fronte al municipio. Ci tornarono in diversi giorni per farci dei picnic, qualche volta con bevande alcoliche e vestiti in modo diverso (le felpe incappucciate attirano sempre molto bene il personale di sicurezza). Potete trovare un sommario on line di questo interessatne esperimento.

A More London (spazio pubblico posseduto da privati) furono sgomberati dai vigilantes per motivi di “salute e sicurezza”, parole che oggi suonano famigliariLe regole a Trafalgar Square – pubblica ma soggetta a una stretta regolamentazione imposta da un’ordinanza – sono differenziate a seconda della zona (sopra o sotto i gradini).  Le sedie a sdraio non sono permesse in cima alla scalinata: in fondo, nonostante non sia permesso bere, la polizia chiude un occhio se non ci sono bottiglie in bella vista e se si assume l’alcol da tazze da te. Ma qui le forze dell’ordine hanno più discrezionalità dei vigilantes privati, che sono pagati meno e anche essi stessi controllati dalla tv a circuito chiuso. Dolan Cummings, autore dell’articolo per Blueprint sostiene:

Al posto dell’ambiguità che emerge dalla presenza di diversi gruppi di persone che condividono lo stesso spazio utilizzandolo per scopi diversi, si instaura una forma di conformismo… Chiunque faccia qualcosa un pochino fuori dagli schemi emerge come una minaccia o fonte di imbarazzo.

Gli Space Hijackers, che hanno preso la parola a Occupy LSX sovvertono questi nuovi spazi privati in modi che rendono più esplicita la forma di controllo alla quale sono sottoposti. Espongono manifesti che descrivono le regole (‘VIETATO DIVERTIRSI’, ‘ANZIANI NON GRADITI’, ‘GODETEVI L A VOSTRA PERMANENZA’), intervengono per impedire ai passanti dal fare cose come tenersi per mano o in qualche modo divertirsi.  Tendono a fermarsi fino ad attirare l’attenzione della sicurezza – cosa che succede sempre grazie alla pervasiva presenza delle telecamere – e ad andarsene prima dell’arrivo della polizia. Interventi più “cattivi” prevedono partite di cricket notturne in completo bianco su spazi privati come Paternoster Square.

Nella critica degli Space Hijackers’ a questo processo di privatizzazione c’è anche la tesi secondo cui questa diminuirebbe le funzioni sociali della via per enfatizzarne gli aspetti legati al conumo. “Ti dicono ‘sei il benvenuto se hai intenzione di spendere’. Ci trasformano in monadi rinchiuse ognuna nella sua piccola bolla”. Diane Coyle ha parlato di questo da una prospettiva diversa quando ha scritto di come la vita pubblica viene espulsa dalla progettazione della città

la chiusura degli spazi aperti in centri commerciali privati, la progettazione dell’arredo urbano che rende il sedersi (figuriamoci sdraiarsi o dormire) una sfida, l’ostacolare qualunque assembramento e perfino la fotografia su presupposti legalitari di ordine e sicurezza, sono tutti atteggiamenti che hanno inibito gli incontri pubblici.

I paradossi dello spazio pubblico

Adottando una prospettiva storica, la possibilità di ristrutturare lo spazio urbano in modo così radicale – secondo Anna Minton – si è materializzata come risultato del processo di deindustrializzazione urbana e la conseguente chiusura di fabbriche, luoghi di lavoro, magazzini e porti disseminati nel paesaggio urbano come si può verificare osservano qualsiasi mappa degli anni settanta. Quella a cui stiamo assistendo è una rapida inversione di tendenza del trend che per tutto il XIX secolo ha visto le strade venire progressivamente acquisite dalle autorità pubbliche.

Minton ha sottolineato l’ironia dei tentativi della City of London Corporation di utilizzare l’Highways Act (promulgato per garantire l’accessibilità pubblica degli spazi) per sgomberare i dimostranti di Occupy da St Paul’s dopo essere stata molto aggressiva nella privatizzazione del suolo ovunque in tutta Londra. Ci sono un paio di interessanti paradossi qui che significano che questi approcci alla gestione dello spazio pubblico sono vittime di se stessi. Il mantra di un manager di questi spazi è “pulito e sicuro”, ma gli stessi spazi vorrebbero vedere qualche energia vitale in azione, che fa bene agli affari. Quello che sappiamo della sicurezza pubblica è che è garantita per lo più dall’interazione sociale, non dall’adozione di costosi e sofisticati armamentari: nel proibire così tante attività l’interazione sociale viene ridotta, non migliorata.

Il secondo paradosso è che le compagnie private responsabili della gestione pensano che “pulito e sicuro” sia semplicemente il primo gradino di una piramide gerarchica costruito il quale il luogo potrà gradualmente aumentare i propri livelli di energia. Purtroppo no; uccidendo il disordine, si uccide anche la diversità e la differenza che contribuiscono a creare la vitalità urbana. Gli ambienti urbani, così come gli yogurt, non si possono creare senza utilizzare una qualche forma di vita. (L’immagine mostra il pallido tentativo di introdurre qualche forma di disordine in uno spazio controllato da privati. No, decisamente non ci siamo.)

Forse stranamente, uno di quelli che si sono accorti dei reali costi della privatizzazione è il sindaco Tories di Londra, Boris Johnson, che nel 2009 ha pubblicato un Manifesto dello spazio pubblico. Ne risulta che i costruttori non hanno bisogno di venire comperati con regali di spazio pubblico, come fu fatto nel caso della realizzazione di Liverpool One. Il manifesto è molto esplicito riguardo la necessità di mantenere pubblico lo spazio urbano.

C’è una crescente tendenza alla privatizzazione della gestione di spazi pubblici dove si instaura questo processo di “corporativizzazione”, specialmente nella realizzazione di grossi insediamenti commerciali. I londinesi possono sentirsi esclusi da parti della loro stessa città. Non deve essere così. In King Cross si è pervenuti a un accordo secondo il quale il municipio di Camden prenderà il controllo delle vie e delle aree pubbliche. Altrove si è riusciti a stabilire un accesso libero all’area 24 ore su 24. Questo ha stabilito un principio importante che dovrebbe essere perseguito in tutte le situazioni simili.

Nonostante il titolo si tratta di un documento politico con uno status legislativo. Lo sviluppo di nuovi insediamenti è un processo lento, specialmente durante una crisi. E fin ora il consiglio comunale di Greater London sembra averlo ignorato. Ma il documento contiene un’imprtante e semplice principio: “Voglio garantire accesso libero e privo di ambiguità a tutti gli spazi pubblici”.

Articolo originale: Privatising public space – 2

Fine – la prima parte di questo post è disponibile qui

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L’autore:

Andrew Curry è un giornalista finanziario specializzato nel settore dei media digitali e della formulazione di scenari per il futuro. Ha partecipato al lancio della prima tv via cavo interattiva britannica, Videotron. Attualmente lavora per l’agenzia di consulenza londinese “The Future Company”. Tra i suoi interessi l’economia creativa e digitale. Cura il blog “The nextwave“, da cui è tratto questo post.

 

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