Nuova Mobilità 2.0

C’è una storiella che gira nel mondo anglosassone sulla differenza tra statunitensi e australiani: di fronte a un problema i primi si rimboccano le maniche per risolverlo quanto prima, i secondi se ne vanno al bar e davanti a una birra cercano di capire qual è il modo più semplice per affrontarlo. Ultimamente stiamo diventando un po’ tutti più americani e meno australiani, puntando a dare subito delle risposte a delle domande che forse non sono quelle giuste. È per questo che dopo due anni di bar Nuova Mobilità torna a pubblicare, riproponendo una riflessione già fatta ormai 4 anni or sono – leggermente riveduta e corretta per metterla al passo con i tempi – che troverete inserita anche nel menu principale del blog e che ispirerà buona parte del lavoro che verrà fatto in futuro su questa rivista online, che presto potrete anche apprezzare in una nuova veste grafica all’indirizzo nuovamobilita.com.

Lo sporco segreto della mobilità sostenibile

(sequel italiano 2.0)

Negli ultimi anni si è assistito nel nostro paese ad una crescita di consapevolezza dei disastri causati da 70 anni di organizzazione della mobilità – urbana ma non solo – centrata sull’autovettura privata anche se, va detto, questa fatica ancora a tradursi in scelte precise ed univoche che consentano alla maggior parte di noi di utilizzare quel range di opzioni che sarebbe auspicabile in un sistema di trasporto realmente multimodale e sostenibile, rendendo l’autovettura privata davvero l’ultima spiaggia a cui ricorrere nei rari casi nei quali non si riesce a disporre di altre possibilità.

Eppure la diffusione delle “buone pratiche”, quanto meno come conoscenza delle possibilità che ci offre lo stato attuale della tecnologia e della  loro applicazione sul campo è ormai una realtà anche nella nostra automobilissima italietta. Cosa c’è che non funziona? Avevo sempre pensato che, una volta capito che bisogna porsi come obiettivo il perseguimento di un sistema di mobilità non più basato sulla sola automobile le cose andassero da sè, con un accordo unanime e diffuso sulle strategie da perseguire in ogni momento e luogo. Quelle strategie che avevamo descritto in questo post su Parigi nel 2009 e che crediamo possano rappresentare il nocciolo di qualunque politica che si ponga come obiettivo il perseguimento di una riduzione decisa dei km/vettura percorsi, l’unico che possa definire in maniera univoca il successo o il fallimento di qualunque politica di mobilità.

Complementarietà vs. sussidiarietà

Invece, complice la ritirata della politica ormai trasformatasi in amministrazione per conto terzi di una nazione ridotta a condominio, si è imposta negli ultimi anni sull’onda dei successi ottenuti da approcci “liberisti” al problema della mobilità (Area C e le diverse forme di congestion charge, peraltro utilissime se intese come strumento di indirizzamento della domanda di mobilità e non unicamente come modalità principe – quando non unica – di raccolta fondi) una visione aziendalista che non si sente minimamente sfiorata dal cruciale problema dell’uso delle risorse a disposizione – leggi spazi e finanziamenti pubblici – e preoccupata unicamente del perseguimento dell’efficienza di questo o quel vettore di trasporto che si pensa “alternativo” all’auto ma che una volta realizzato si scopre in realtà “complementare”, in quanto nulla ottiene in termini di riduzione dei flussi di traffico. La lezione che molte esperienze di road pricing hanno da dare viene recepita solo per la parte riguardante la possibilità di fare cassa in poco tempo (e forte è la sensazione che possa servire anche come alibi per una ulteriore ritirata del settore pubblico) per finanziare servizi di trasporto spesso a servizio delle elite urbane e poco attenti ai bisogni delle periferie, gli abitanti delle quali vengono paradossalmente costretti nel “lusso obbligatorio” dell’auto privata a questo punto esclusa dai centri urbani e quindi confinati in lunghissimi pellegrinaggi da periferia a periferia, da quartiere dormitorio a centro commerciale e viceversa.

Penso all’ammirazione con la quale vengono visti i francesi con la loro rete di Alta Velocità integrata nelle diverse aree urbane da servizi tranviari di eccellenza costruiti nel giro di pochissimi anni che consentono ai nizzardi di fare i pendolari a Parigi. O alle metropolitane londinesi con i loro costi esorbitanti. Molte (o alcune) di queste realtà possono anche offrire un servizio davvero pubblico (cioè, a rischio di ripetere alla nausea il concetto, contribuire a ridurre i km/vettura percorsi) nelle realtà nella quali si trovano, ma bisogna essere consapevoli che una “buona pratica” a Lione non lo è necessariamente a Piacenza, e passare dal particolare all’universale in un ambito così sfaccettato e territorialmente caratterizzato come quello della mobilità è un esercizio quanto meno rischioso.

Per esempio, è un segreto di pulcinella che nel nostro paese la realizzazione e la sostenibilità economica della rete ad Alta Velocità è passata anche per la soppressione, o comunque la penalizzazione attraverso pesanti disservizi “imprevisti”, di molti collegamenti regionali e interregionali sulle brevi-medie distanze, condannando i pendolari a gravissimi disagi o all’uso coatto dell’automobile. Ma da nessuna parte si sente una voce che si leva a porre la questione del cui prodest una situazione nella quale l’elite del nostro paese ha a disposizione 14 collegamenti al giorno da 300 km/h sulla Milano Roma, mentre il pendolare della Bergamo Milano non sa se troverà il suo regionale sul binario. E mentre ci scusiamo per il disagio vi segnaliamo che la risposta potrebbe essere questa. Gli incrementi di domanda sulla rete ferroviaria ad alta velocità favoriti sia da tariffe promozionali che dalla soppressione di molti collegamenti interregionali  e la diminuzione di quella del trasporto locale – inevitabile viste le incertezze causate da servizi inaffidabili – vengono utilizzati per perseverare in scelte politiche scellerate. Tutto questo avviene in un contesto più generale di crisi economica nel quale lo slogan “tagli alla spesa” è diventato il mantra di tutte le parti politiche, totalmente dimentiche di quel banalissimo concetto economico per il quale la spesa di qualcuno è il reddito di qualcun altro, reddito che poi viene a sua volta tassato contribuendo a rimpinguare le casse statali. Ci ricordiamo tutti il  “governo tecnico” (in realtà ferocemente oligarchico, senza virgolette) che tra la fine del 2011 e l’inizio del 2013 in nome della “lotta allo spreco” praticò draconiani tagli alla spesa pubblica la cui conseguenza altro non fu che un’impennata dell’aumento dell’indebitamento dello stato, che inevitabilmente è stato poi utilizzato come foglia di fico  (peraltro ritenuta sconveniente quando si è trattato di “tenerci in Europa” con l’Alta Velocità) per il prolungarsi  dell’assenza di doverosi interventi della mano pubblica in tutti i campi, tra i quali il nostro .

Visioni aziendaliste vs. politiche degli spazi pubblici

Di fronte a queste critiche la risposta che spesso viene data è la solita: “bisogna essere più virtuosi, dobbiamo rendere il trasporto ferroviario locale appetibile per le aziende private”. Moralismi fuori luogo. Vorrei capire come si possa rendere il trasporto locale appetibile per gli operatori privati senza aumentare le tariffe. Quelle italiane sono tra le più basse d’Europa (anche se sono molto differenziate da regione a regione), ma qui si svela la miopia di una visione aziendalista.

In un paese con 6 automobili ogni 10 abitanti neonati e centenari compresi il costo marginale di ogni spostamento in automobile aggiuntivo è davvero irrisorio e quindi difficilmente l’automobilista si convincerà a cambiare abitudini e utilizzare il treno lasciando fermo un attrezzo che ha dei costi fissi esorbitanti, a maggior ragione se la malfamata ferrovia aumenta ancora le tariffe che per il pendolare sono – ma guarda un po’ – costi variabili; l’esperienza  del Lombardia Express è lì a dimostrarlo.

Invece il nocciolo di quello che ha da insegnare l’esperienza di Area C – così come altre forme più morbide di congestion pricing quale quella adottata a Bologna – viene costantemente ignorato. L’obiettivo di riduzione dei flussi veicolari si può ottenere se si realizza quella condizione necessaria, sicuramente non sufficiente, di aumento dei costi marginali degli spostamenti automobilistici. Solo in un secondo momento si potrà pensare di aumentare le tariffe dei trasporti pubblici la cui offerta sarà già stata migliorata grazie al trasferimento di risorse dall’auto privata al trasporto pubblico e ad altre forme di mobilità e di uso del suolo pubblico. Risorse che non sono solo finanziarie, ma anche fisiche (creazione di corsie preferenziali, piste ciclabili etc etc) e che mettono in discussione una visione della vita urbana formatasi nell’arco di un secolo durante il quale l’immaginario legato alla velocità prima e all’automobile poi ha celato agli occhi anche degli addetti ai lavori l’importanza di quello che qualcuno chiama il “patrimonio immateriale” delle città: le relazioni degli abitanti tra di loro, con gli spazi che costituiscono il tessuto urbano e con la loro storia. Capita spesso che anche chi cerca, pur in completa buona fede, di superare l’impasse nella quale ci troviamo, cada nella trappola della rinuncia alla messa in discussione di quella che è la destinazione d’uso degli spazi urbani: alla costruzione di una nuova linea metropolitana non corrisponde la riallocazione di significative percentuali degli spazi pubblici soprastanti (che si tradurrebbe in un aumento dei tempi di viaggio – e quindi del costo marginale – degli spostamenti automobilistici); è molto più facile che l’inaugurazione della nuova linea venga presa a pretesto per la riduzione dei servizi di TPL di superficie. E in questo caso l'”efficienza” e la “sostenibilità” – in termini puramente contabili – della nuova infrastruttura sono più che garantite dai massicci trasferimenti di utenza proveniente da un altro vettore di trasporto pubblico molto più che da ex-automobilisti, a detrimento di quella che dovrebbe essere invece l’efficacia della nuova infrastruttura in termini di riduzione dei flussi di traffico e di miglioramento della qualità degli spazi pubblici.

Allocazione degli spazi e finanziamenti pubblici

Perchè quindi non applicare lo schema logico sottostante le esperienze di congestion pricing anche all’ambito di area metropolitana larga? Perchè non trovare il modo di trasferire risorse dall’auto al trasporto pubblico (su ferro e su gomma) anche per gli spostamenti, per esempio, tra Varese e Milano o tra Sesto San  Giovanni e Rho Fiera? Perchè non riservare una corsia autostradale, durante le ore di punta, all’uso preferenziale di bus articolati, integrando il servizio con coincidenze immediate dalle fermate sull’autostrada con mezzi pubblici che portino nei centri urbani? In questo caso l’aumento del costo marginale dello spostamento automobilistico si potrebbe misurare in aumento della congestione e quindi dei tempi di trasferimento. Soluzione alquanto impopolare, si sa, per questo andrebbe bilanciata dalla realizzazione di un servizio di trasporto pubblico davvero di eccellenza che colleghi origini e destinazioni degli spostamenti in modo davvero “seamless”, senza nessuna soluzione di continuità. Cosa difficile ma non irrealizzabile. Questo è solo un esempio, ma credo che con un buon esercizio di immaginazione potremmo trovarne molti altri riferiti a realtà e territori che conosciamo bene, anche meno drastici di questo, ma ispirati comunque dallo stesso principio.

Esiste però  il problema dei finanziamenti che non si può ignorare illudendosi che forme anche spinte di congestion pricing o di riallocazione degli spazi possano bastare a reperire le risorse necessarie a garantire corse con frequenze accettabili e coincidenze immediate anche in contesti dove i servizi di TPL sono molto rarefatti o inesistenti. Per questo dovremmo quanto meno  assumere un atteggiamento di scetticismo quando si spacciano le soluzioni di road pricing come la panacea per tutti i mali. Se utilizzate per giustificare la ritirata del settore pubblico dalla messa a punto di politiche di mobilità coerenti e sostenibili (sostenibilità che va intesa in primo luogo da un punto di vista ambientale e di emancipazione dalla dipendenza da combustibili fossili e solo secondariamente e non necessariamente in senso finanziario) diventano strumenti di discriminazione. Se invece vengono inserite in un contesto complessivo di messa in discussione delle politiche dei trasporti come le abbiamo sempre conosciute – cosa che può essere fatta solo grazie a un intervento deciso di autorità pubbliche consapevoli e, soprattutto, sovrane e non amministratrici condominiali – possono contribuire a modificare  abitudini che sembrano più dettate da una forma di dipendenza che da scelte razionali.

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